sabato 27 agosto 2016

Finanza Ombra. L'intervento di Carmine Tabarro

Segue il documento guida originale che il dott. Tabarro ci ha gentilmente concesso per condividere la sua lezione.

Buongiorno a tutti.

Grazie per questo invito (un grazie particolare a don Sandro Fadda), perché giornate come queste rientrano nel campo della mia ricerca sull’Economia di Civile, quindi sono un sostenitore culturale, ideale, di iniziative concrete come le  vostre. 
Desidero ringraziare perché, con l’affermarsi della società moderna l’idea stessa di bene comune e di “corpo sociale”  è andata in crisi

L’idea classica di bene comune, da Aristotele a San Tommaso, immagina una comunità, un popolo, come un corpo: il  bene del corpo coincide con il bene delle singole membra e non viceversa. Da qui la definizione classica di bene comune, che ritroviamo anche nella Dsc (Dsc) oggi, “Il bene di tutti e di ciascuno”: il bene di ogni membro del corpo è direttamente il bene di tutte le altre membra e del corpo intero. La filosofia utilitaristica che oggi sembra aver avuto la meglio opera una cesura radicale tra bene comune e bene totale a vantaggio di quest’ultimo.
Con l’affermarsi del postmoderno  anche i residui concetti di bene comune, di matrice cattolici-comunitari, che come un fiume carsico, dal XII secolo con la scuola economica francescana, sono stati travolti  dal tecnonichilismo. Per questo sono grato a  “giornate”  di riflessione, di studio, di formazione teorico-pratiche, di scambio culturale transdisciplinare, perché a mio avviso sono capaci  di innescare quei processi virtuosi che riportano al centro della società civile, della politica, dell’economia ecc., la rivalutazione e  la rilettura dei beni comuni nell’epoca del postmoderno. Inoltre  giornate di studio e di riflessione sulla società civile, sulla politica, sull’economia alla luce della Dsc sono un laboratorio, un luogo proficuo per far crescere un pensiero orientante capace di produrre proposte concrete per far crescere una società, una politica, una economia civile e risvegliare i corpi intermedi della società, i cittadini,  del nostro Paese affinché possano dispiegare tutta la loro potenzialità non ancora completamente dispiegata al servizio dei beni comuni. Il tema che mi ha affidato don Sandro, la finanza ombra  richiederebbe diversi giornate di studio per sviluppare solo i vari aspetti e i temi (riciclaggio, antiriciclaggio, gioco d’azzardo, paradisi fiscali, banche ombra cfr Cina). Pertanto, mi soffermerò solo sulla dimensione più conosciuta dal grande pubblico della finanza ombra.

0.Premessa

Permettetemi una premessa, gli economisti civili, nell’analizzare i problemi che sono chiamati a valutare, non si limitano ad analizzare l’economia come “scienza triste”’, ma attraverso il dialogo con le altre scienze umane vogliamo che questa torni ad essere la scienza della felicità pubblica  di cui l’abate Antonio Genovesi è stato il padre. Genovesi affermava: “Si ricordi l’homo homini lupus è un pensiero profondamente errato. L’uomo è homo homini natura amicus, l’uomo è per natura amico degli altri uomini, è un essere relazionale, è un essere votato alla felicità, alla felicità sociale”. 
Ma oggi, è ancora possibile parlare di economia come scienza della felicità pubblica?
Per millenni la nostra civiltà si è nutrita su due pilastri culturali: il doppio comandamento che ha alimentato l’ethos ebraico-cristiano: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso; e sul pilastro della filosofia nichilista che ha in Gorgia il suo padre filosofico (per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”).
Con l’affermarsi della scienza moderna prima, e poi a partire dall’Ottocento, questo ethos culturale trova la sua affermazione in Nietzsche che definisce il nichilismo, “il più inquietante degli ospiti”. Sempre Nietzsche scrive che nel: “Nichilismo: manca lo scopo, manca il perché, tutti i valori si svalutano”.  
Dal canto suo Heidegger afferma che il nichilismo “gira per la casa ed è inutile metterlo alla porta, ma bisogna guardarlo davvero in faccia”. 
Tutto questo ha fatto dire a Nietzsche che “Dio è morto”, con l’affermazione della società postmoderna è tempo di dire quello che tutti vediamo, “È morto anche il prossimo”.
Siamo diventati indifferenti nei confronti del prossimo, non riusciamo più a farci prossimi a nessuno.
La parola ebraica réac nel Levitico, e quella greca plesíos, nel Vangelo di Luca, vogliono dire proprio questo: “l’altro che ti sta vicino”. 
Purtroppo quello a cui stiamo assistendo in tutti i campi dell’umano, — in modo così prossimo e sconvolgente, in particolare nelle ultime settimane, ci svela il vero volto della nostra epoca che è segnata dalla “paura e dall’incertezza”, che i sociologi hanno declinato come: “società liquida”, “società del rischio”, società dei “non luoghi”, le cui eziopatologie sono da ricercare  nell’affermazione della cultura della “mancanza di senso”, dall’affermarsi di quello che Nietzsche chiama "il più inquietante fra tutti gli ospiti: il nichilismo”.
Come detto, per l'intero arco della storia della filosofia, l’”ospite inquietante” ha fatto sempre sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa presenza culturale è divenuto il clima biologico della terra, che sta generando lo spaesamento di tutti i paesaggi  che la nostra civiltà (tra cadute e riprese) ha di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra in modo più pieno e migliore. 

Ma perché proprio oggi? 

Le conseguenze a livello culturale

Nel mondo governato dal tecnonichlismo, l'efficacia degli imperativi morali è pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. 
Nel dizionario della cultura tecnonichilista, concetti come il personalismo cristiano, il bene comune, l’umanesimo integrale, la sussidiarietà, i valori, le virtù, la morale, sono stati espulsi, non hanno diritto di cittadinanza.
Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine valoriale da realizzare, ma solo l’utilità dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca di senso per l’uomo l'occidentale, cresciuto nella "cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se inscritta in un orizzonte di “senso”, di “significati”. 
A questo tipo di domanda il tecnonichilismo non risponde, perché la categoria del senso non appartiene alle sue competenze. Nella cultura contemporanea la tecnica è diventata la forma del mondo, l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande intorno al senso vagano affannose e senza risposta. Una cultura dominata dal pensiero del “non senso” che sta generando la crisi di civiltà che stiamo vivendo con tutte le sue tristi conseguenze. 

Le conseguenze a livello sociale

L’affermazione del tecnonichilismo ha profondamente indebolito i legami interpersonali, ha reso “liquide” le nostre  comunità, che sempre più spesso si stanno trasformando in un “comunitarismo tribale” come frutto patologico dell'io e del noi, che esalta il proprio egoismo ed ha sostituito la solidarietà e fraternità umana con la competizione senza limiti, fino a  ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi complessi e di ampia rilevanza sociale. Non solo.

Non è un caso se, alla fine dell’Ottocento, Freud inventa la psicoanalisi, che si diffonde prepotentemente nel secolo XX. Freud evidenzia come l’isolamento dell’uomo avanza, solitudine che lo  rende patologico. Le persone più sensibili sono lacerate da una sofferenza cui si assegna il nome di nevrosi. Attraverso la psicoanalisi si cerca di ricostruire un rapporto umano, non con “il prossimo”, con l’altro, ma con un professionista. L’uomo invece, ha bisogno di vicinanza, di prossimità in maniera così violenta, che tra paziente e professionista viene spesso a crearsi un eccesso di intimità: questo è chiamato transfert e considerato a sua volta nevrotico. Freud suggerisce tecniche per contenerlo. Fa stendere il paziente su un divano per allontanare il suo sguardo: massima espressione dell’indifferenza e/o della paura dell’altro.
In questo clima culturale liquido e senza regole se non la ricchezza elogiatrice di pochi, nasce e si sviluppa la finanza ombra.

2.Finanza ombra

Una premessa metodologica: nella seconda parte del mio intervento sentirete parlare di banchieri e finanza ombra, perché come vedremo le due figure non sempre collimano.
Mentre per i primi esiste, come vedremo delle forme di controllo, nel caso della finanza ombra i flussi finanziari di capitale che circolano sono al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia dell’autorità di vigilanza. 
Inizio questa seconda parte del mio intervento, parafrasando la frase di Jacques Laffitte (banchiere e politico), pronunciata alla fine della Rivoluzione francese nel Luglio del 1830, molto attuale anche nel nostro tempo: “D’ora innanzi regneranno i banchieri e istituzioni finanziarie ombra”. Ancora oggi, i banchieri e soprattutto come vedremo le istituzioni che governano la finanza ombra, dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma perché la politica ha aperto loro le porte. 
Sto scrivendo questo intervento sabato 30.7. giorno seguente agli stress test della BCE ed (abbiamo alle spalle la crisi finanziaria del 2007) è possiamo sicuramente affermare che la storia non ha insegnato nulla e la crisi strutturale non ha fatto altro che ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad essa sia stato posto rimedio (sia pure per  un breve periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929.  Questo è un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Facciamo un ulteriore passo in avanti: sentiamo sempre più spesso parlare di shadow banking negli ambienti finanziari internazionali.  

2.1.Ma che  cos'è lo shadow banking? 

Il sistema bancario ombra raggruppa una serie di istituzioni e di pratiche basate sull'utilizzo di derivati finanziari che si collocano al di fuori dalla regolamentazione e dell'attenzione pubblica. Quest'assenza di regole ha facilitato la sua rapida espansione.
L’espressione coniata dal Financial Times e dalla Banca Mondiale sta ad indicare gli strumenti del mondo finanziario completamente diversi  da quelli che vengono normalmente utilizzati nei canali tradizionali. 

Volendo elencare nello specifico tali strumenti dovremmo così parlare del private equity, del venture capital e del  crowdfunding, sistemi bancari paralleli 
E' utile dare una breve definizione degli strumenti di cui sopra: 

  • Private Equity: è un'attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società definita target (ossia obiettivo) , ciò avviene sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all'interno della target.
  • Venture Capital: Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Un fondo di venture capital investe principalmente in capitale finanziario nelle imprese che sono troppo rischiose per i mercati dei capitali standard o dei prestiti bancari.
  • Crowdfunding: o finanziamento collettivo in italiano, è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni. È una pratica di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il termine trae la propria origine dal crowdsourcing, processo di sviluppo collettivo di un prodotto.


Questi innovativi e non convenzionali strumenti finanziari hanno creato una grande quantità di denaro che, sorprendentemente, e a differenza di quanto si può affermare del sistema bancario tradizionale, non cessa di crescere.

2.2 Dark pools

Ma procediamo con ordine
Una prima riflessione.
Per prima cosa, la crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007 negli Usa e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica. 
La crisi finanziaria del 2007 non è una crisi congiunturale né una crisi regionale, ma una crisi strutturale.  
Essa è il punto di arrivo di un processo che da oltre quarant’anni ha modificato alla radice il modo di essere e di funzionare anche della finanza, minando così le basi stesse di quell’ordine sociale liberale che è la cifra inequivocabile del modello di civiltà occidentale. 
Due sono gli elementi strutturali della crisi: quelle prossime, che dicono delle peculiarità specifiche assunte in tempi recenti dai mercati finanziari e quelle profonde, che chiamano in causa gli aspetti di matrice culturale di cui ho detto in premessa che ha accompagnato la transizione dal capitalismo industriale a quello finanziario. Da quando ha iniziato a prendere forma quel fenomeno di portata epocale che chiamiamo globalizzazione, la finanza grazie anche alla rivoluzione tecnologica, non solamente ha accresciuto costantemente la sua quota di attività in ambito economico, ma ha progressivamente contribuito a modificare sia le mappe cognitive delle persone sia il loro sistema di valori. 

E’ a quest’ultimo aspetto che si fa riferimento quando oggi si parla di finanziarizzazione (financialization) della società. “Finanza”, letteralmente, è tutto ciò che ha un fine; se questo fuoriesce dal suo alveo storico, la finanza non può che generare effetti perversi.
Un secondo punto. Con l’avvento del postmoderno, il mix di globalizzazione e tecnonichilismo finanziario, ha travolto il potere degli Stati.   
Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. 
Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. 
I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… 
Questi tipo di globalizzazione anarchica ha trasformato le multinazionali e i centri di potere occulti, in un “non-luogo” del diritto,  lasciando i mercati finanziari e i loro protagonisti, che ne hanno approfittato, privi di regole, di massimizzare i profitti a danno del bene comune. 
Ogni singolo potere, si fa beffa facilmente delle regole e del diritto locali e a anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia ecc.
In tal senso, Benedetto XVI nella Caritas in veritate, denuncia il tipo di  globalizzazione (CV, n. 33), considerata non solo un fenomeno economico, ma anche culturale. Il Papa non vuole che sia interpretata con un atteggiamento fatalistico, che ci condanna a vivere in balia di forze anonime e incontrollate, ma come un processo guidato dalle decisioni di esseri umani (CV, n. 42). 
I riferimenti alla crisi presenti nella enciclica ci consentono, a ogni modo, di ricostruirne una visione sufficientemente sistematica. Anche se presentata come crisi economico-finanziaria, essa non è solo il risultato di eventi verificatisi nel mondo della finanza. Bisogna andare più in profondità e considerarla come un’espressione della gravità di un processo giunto ai suoi esiti estremi, le cui radici storiche erano già state denunciate dalla Populorum progressio
Un aspetto della crisi che la CV sottolinea con forza è il venir meno della fiducia, che ha colpito in particolare il mondo della finanza (CV, n. 35). In contesti diversi vengono denunciati altri due aspetti problematici: la speculazione, che cerca unicamente il guadagno a breve termine (CV, n. 40), e l’abuso di  sofisticati strumenti finanziari (CV, n. 65). Il papa emerito propone meritoriamente, ma per ora ancora poco ascoltato, un’ampia riforma della governo mondiale della finanza“di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, […] anche in presenza di una recessione altrettanto planetaria”. CV n.67
Una terza riflessione. Il capitalismo finanziario ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali (spesso virtuali e a leva) da un posto all’altro e guadagnando sulla speculazione di beni, servizi, merci, valute, ecc. 

Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, alla finanza ombra. 
-Crisi sistemica
Entriamo nello specifico delle cause prossime, tecniche e politiche della crisi sistematica iniziata non nel 2007 ma dagli anni settanta del secolo scorso che trovano nell’eccesso di liquidità e dalla mancanza di regole la loro eziopatologia.
Difatti dalla petrolifera degli anni ’70 del secolo scorso, a quelle di Messico, Brasile, Russia e Corea degli anni ’80, e ancora quelle di Messico, Thailandia e Argentina (anni ’90). Tutte rappresentano un precedente della crisi scoppiata nel 2007 e sono accomunate da cause identiche: creazione smodata di denaro da parte delle banche private e dalla mancanza di regole alla finanza ombra. Identiche sono state anche le conseguenze: aumento delle disuguaglianze, non solo nei Paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati, errori tecnici si sommano alle responsabilità politiche e morali.
E’ vero che la disuguaglianza è antica quanto la società, perché differenze di potere e di ricchezza hanno sempre caratterizzato la vita dell’uomo all’interno di una comunità. La storia ci ha mostrato tre tipi di disuguaglianze: quella tra individui di una stessa comunità (o Paese), quella tra nazioni e quella diventata (postmoderna) più rilevante di recente: la disuguaglianza globale tra tutti i cittadini del mondo.
Pertanto è indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale enorme problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla a livello di G7 e G20,  sono del tutto inadeguate. 
In altre parole, senza una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo obiettivo delle istituzioni politiche internazionali, visto che di lì nascono i nostri  guai e senza interventi risolutivi, le cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo,  dello stato sociale.
-La crescita dei derivati nel periodo pre-crisi
Nati come strumenti di copertura del rischio di credito, i derivati hanno conosciuto una espansione imponente nel corso degli ultimi anni: da circa 100.000 miliardi di dollari nel 2001 a oltre 600.000 miliardi alla fine del 2007. 
In termini relativi, la crescita più consistente è stata quella dei CDS (Credit default swap), passati, nello stesso periodo, da 750 miliardi di dollari a circa 59.000 miliardi – quasi quattro volte il PIL USA. 
-Dopo quasi dieci anni come vanno le cose? 
Il giornalista economico americano, Michael Snyder 2014, ha fatto uno studio sull'ultimo rapporto trimestrale di un ente pubblico di controllo delle banche Usa, l'Office of the Comptroller of the Currency (Occ). Nelle tabelle allegate al rapporto, l'Occ rivela a quanto ammontano le esposizioni ai derivati delle maggiori banche Usa. 

Tenetevi forte: ciascuna delle prime cinque banche ha un'esposizione ai derivati superiore a 40 mila miliardi di dollari (cioè 40 trilioni). Per avere un'idea di quanto sia grande il loro azzardo morale, basta un solo paragone: l'intero debito nazionale del Tesoro degli Stati Uniti è di 17.700 miliardi di dollari (17,7 trilioni), cioè meno della metà dell'esposizione ai derivati di una singola banca.
Il primato di questa follia spetta alla JP Morgan Chase, che, a fronte di asset complessivi propri per appena 2,5 trilioni, ha un'esposizione ai derivati di 67 trilioni di dollari. Seguono: Citibank, con un'esposizione di 60 trilioni (1,9 trilioni di asset propri); Goldman Sachs con 54 trilioni di esposizione contro meno di un trilione di asset propri; Bank of America con 54 trilioni di rischi sui derivati contro 2,1 trilioni di asset; Morgan Stanley con oltre 44 trilioni di esposizione a fronte di soli 831 milioni di dollari di asset propri.
A differenza delle azioni e delle obbligazioni, scrive Morgan Stanley nel suo blog, “i derivati non rappresentano investimenti in nulla: sono solo scommesse su ciò che accadrà in futuro”. 
Praticamente la drammatica e recente storia non ha insegnato nulla: la finanza è governata con le logiche del gioco d'azzardo legalizzato, e le banche too big to fail hanno trasformato in maniera strutturale Wall Street nel maggior casinò nella storia del pianeta. Quando questa bolla scoppierà (e scoppierà sicuramente), il dolore che causerà per l'economia globale sarà maggiore di quanto le parole possano descrivere.
Quale sia l'ammontare mondiale dei contratti in derivati, non essendo previsto l'obbligo della loro registrazione, è un mistero.
Il New York Times,  indica in 280 trilioni di dollari i derivati che sarebbero sui libri contabili delle maggiori banche Usa. La seconda stima è della Banca dei Regolamenti Internazionali, che stima in 710 trilioni di dollari il totale mondiale, “somma che ha dell'incredibile”. 
Dobbiamo dire che se è vero che su queste scommesse, le grandi banche hanno fatto enormi profitti in questi anni è altrettanto vero che hanno realizzato anche enormi perdite a danno della collettività con gli enormi e inevitabili interventi statali. 
Ancora un dato: il 28 luglio scorso uno studio di Mediobanca su un campione di 66 banche internazionali (di cui 29 europee, quasi la metà del totale attivo di bilancio) rivela che l’esposizione al rischio di mercato delle banche è ancora molto elevata. 
Il rischio derivati pesa sul capitale netto delle banche europee per il 38%,  26% giapponesi, 18,5% Stati Uniti.
-Tra le prime dieci banche a maggior rischio derivati sette sono europee e tre degli Stati Uniti.
Credit Suisse (87,9% primo posto su capitale netto), Deutsche Bank (46,6% su capitale netto), Barclays 51,5%, Royal Bank of Scotland 30,6%;BNP Paribas 52,1%; Hsbc bank 15,9%; Societè Generale 79,3%.
Il fair value dei derivati in portafoglio delle banche europee alla fine del 2014 era di quasi 7 trilioni di euro, circa il doppio degli Stati Uniti

Inoltre, le attività di livello tre (asset illiquidi, privi di mercato e valutati in modo discrezionale dai singoli istituti) rappresentavano il 20,6 per cento del patrimonio complessivo, contro il 13,1 per cento delle banche americane. 
E si badi che questi dati sono fortemente influenzati dalle grandi banche francesi, tedesche e inglesi che sono ancora orientate all’attività di investment banking.
Questi dati dimostrano non solo che c’è ancora molto da fare per portare chiarezza nei bilanci bancari europei, ma anche che i colossi del credito dei Paesi centrali e del Regno Unito non hanno ancora definito una strategia adeguata alla nuova realtà del dopo crisi. Paul Tucker, già responsabile della vigilanza britannica e ora a capo del Systemic Risk Board, ha detto che occorre almeno una generazione per adattarsi al “new normal” perché siamo di fronte ad una svolta epocale. Il problema è che dall’inizio dell’ultima pagina della crisi sono trascorsi ormai circa dieci anni e  il recente studio di Mediobanca ci dimostrano che assai poco è cambiato. 
-Un rischio sistemico si aggira per l’Europa e per il mondo.
Dettaglio importante per noi europei: Deutsche Bank, come un super-hedge fund, ha emesso derivati per 75mila miliardi di euro, 20 volte il Pil tedesco, quasi uguale al Pil mondiale.
Dei 75mila miliardi di euro di derivati, nel suo bilancio attuale pesano 32 miliardi di euro di derivati ad alto rischio e un'altissima leva finanziaria: fatti due conti, anche un calo del 4% del valore degli attivi potrebbe azzerare il capitale del colosso tedesco. Da anni tiene a bilancio ingenti quantità di titoli tossici classificati di livello 3. Ossia strumenti finanziari a cui non si riesce a dare un prezzo perché non trattati sui mercati e non equiparabili ad altri prodotti simili che invece lo sono. A quel punto è la stessa banca a decidere, attraverso dei modelli interni e con ampio margine di discrezionalità, quale valore attribuire a questi titoli. 
Davanti a queste cifre, gli investitori hanno quasi dimezzato il valore di Deutsche Bank, mentre il Governo tedesco ha lanciato un'imponente guerra lampo per difendere il simbolo della potenza finanziaria nazionale. anche la Commerzbank è fortemente esposta sui derivati. 
Il 30 giugno scorso le azioni della Deutsche Bank hanno toccato i minimi storici a 12,83 euro. Il Fondo monetario internazionale ha definito Deutsche quella che, tra le grandi banche, “più di tutte contribuisce ai rischi sistemici”. 
Le sei maggiori Landesbanken tedesche, dopo aver bruciato agli inizi della crisi un terzo del loro patrimonio per aver investito nei titoli strutturati americani, hanno prodotto negli ultimi sette anni un modestissimo utile aggregato, pari allo 0,2 per cento dei ricavi, e hanno chiuso in rosso l’esercizio 2015. 

2.2 Dark pools

Tra gli strumenti innovativi della finanza ombra un ruolo sempre maggiore lo sta ricoprendo la dark pools (letteralmente, “piscine oscure”)
Sono gigantesche piattaforme finanziarie anche queste non trasparenti, esterne ai circuiti regolamentati. 
Queste piattaforme finanziarie non espongono pubblicamente i prezzi. 
Queste piattaforme vengono utilizzate dai grandi investitori istituzionali per concludere enormi transazioni nel più totale anonimato. Con il grande vantaggio, rispetto alle normali Borse, di minimizzare i costi della negoziazione e lo stesso impatto sul mercato (il cosiddetto market impact). 
Questo perché quando un operatore istituzionale deve eseguire un ordine di grandi dimensioni, finisce con il muovere il mercato a suo sfavore: acquistando in enormi quantità provoca un rialzo delle quotazioni, mentre se vende i suoi maxi ordini trascinano i prezzi al ribasso. Una dinamica che si fa sentire in particolare su titoli poco liquidi, quelli per esempio di società a media o bassa capitalizzazione. Nelle dark pools tutto questo invece succede in misura molto minore, perché non si sa chi sta effettuando la transazione e a che prezzo. Ci si muove, appunto, nell’oscurità.
Chi le ha messe in piedi 
Tutte le grandi banche internazionali hanno le loro dark pools. Una ricerca di Bloomberg Intelligence, basata su dati Finra e condotta il mese scorso, rivela che le maggiori appartengono a Ubs (14,4% del totale), Credit Suisse (13,6%), IEX (10,7%, l’unico non essere un grande istituto di credito), Deutsche Bank (7,6%), Morgan Stanley (7,2%), Jp Morgan Chase (4,9%), Merril Lynch (4,8%) e Barclays (3,9%). Il loro peso, cresciuto di anno in anno, nel 2015 è arrivato a rappresentare il 7,22% del valore degli scambi sulle Borse europee (dati Batz Europe), superando di slancio l’8% il mese scorso. Ancora più macroscopico è il fenomeno negli Stati Uniti, dove Bloomberg stima che il 20% del controvalore degli scambi avvenga su mercati non trasparenti.
-Cosa c’entrano le dark pools con il crollo di Borsa? 
Il problema delle dark pools è che oggi - con i loro misteriosi prezzi - sono diventate così importanti da confondere e a volte persino distorcere i prezzi reali. 
Qual è la quotazione giusta? Quella che vedo sulla normale Borsa o quella che è appena passata con un ordine colossale sulla dark pool? Le piattaforme oscure, inoltre, in momenti di grande stress sui listini, possono inoltre contribuire al caos: non sono trasparenti, non sono adeguatamente regolamentate e - considerando la mole di transazioni - rischiano di trascinare con loro il resto del sistema finanziario, a partire dalle normali Borse.

3.Dsc e capitalismo finanzio 

Il pensiero di Benedetto XVI sulla crisi finanziaria globale espresso nella Caritas in veritate, viene sicuramente arricchito dall’esame di due documenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il primo (PCGP 2011) ha come oggetto la crisi economica e finanziaria e le riforme necessarie per la sua soluzione, mentre il secondo (PCGP 2013) si occupa dell’impresa, anche se non mancano allusioni alla crisi. 
A differenza della CV, PCGP 2011 contiene un’analisi tecnica più dettagliata della crisi e una forte denuncia delle disuguaglianze che ha provocato. Sebbene vi si percepisca facilmente l’eco dell’enciclica di Benedetto XVI, il fatto che non sia un documento papale ne spiega il tono più concreto e incisivo. 
Il documento concentra le sue denunce su un liberismo economico senza regole né controlli, inteso come ideologia che ispira l’economia internazionale. Il giudizio è molto severo: «Si tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario» (n. 1). 
Il documento propone una serie di proposte:
– separare il mestiere della banca di deposito da quello della banca d’affari o d’investimento;
– gli interventi dello Stato per salvare e ricapitalizzare banche in difficoltà non possono essere, come sono stati nel 2008-2009, eseguiti senza condizioni. Un intervento pubblico nelle banche in difficoltà deve essere subordinato a condizioni rigorose nella “governance”, per assicurare il controllo dell’impiego che verrà fatto del denaro dei contribuenti. Non possiamo continuare a socializzare le perdite e privatizzare i profitti;
– imporre una tassa modesta, ma globale e uguale per tutti sulle transazioni finanziarie su tutte le piazze finanziarie. 
Se l’avessimo fatto a partire dal 2007 il debito sovrano che tanti problemi ha sollevato sarebbe stato contenuto ed avremmo ridotto la propensione dei banchieri a giocare al casinò, rispetto a quello di fare il mestiere di banchiere.
4.Conclusione.
Quello che non sappiamo è piuttosto come farlo e con chi. 
La grande illusione che molti ancora coltivano, è che ci penseranno i banchieri e i gestori della finanza ombra a gestire meglio le cose con un maggiore senso di responsabilità. 
Molti, però, si sono resi conto che aspettare dai banchieri e dai gestori della finanza ombra un esercizio di responsabilità, è pretendere da loro un atto contro natura. 
Ed allora ci si è rifugiati nella illusione tecnocratica. 
Saranno i grandi tecnocrati, i rappresentanti delle banche centrali, gli alti dirigenti bancari, i grandi accademici, i grandi funzionari pubblici, a mettere le cose a posto. La lotta in corso dal 2008 contro le lobby bancarie, la strenua difesa da loro esercitata contro ogni ragionevole proposta di correzione e l’arrendevolezza dei tecnocrati ci dimostrano che anche l’illusione tecnocratica non funziona.
Per la semplice ragione che non si tratta di questioni tecnocratiche, ma di conflitto politico, di scontro di interessi, di conflitti di classe, che trova la sua radice nell’avidità patologica.
La madre di tutte le battaglie non è legata a questa o quella soluzione tecnica, ma, innanzi tutto, a combattere e far regredire la visione di una mondo totalmente finanziarizzato, con tutta la rivoluzione culturale per riconquistare posizioni per il lavoro e la dignità del lavoro, a far rinascere visioni di lungo termine, a prendere atto che senza la cultura del bene comune non può esiste una società civile giusta ed equa. 
Ed è qui il vulnus che rende questa una rivoluzione culturale certamente non facile . 
Ma se non riusciremo ad innescare questo processo virtuoso, ci arrotoleremo di crisi in crisi, e saremo sempre sotto in balia della società del rischio. 
Una delle caratteristiche che distinguono la crisi del capitalismo finanzio dagli anni settanta del secolo scorso rispetto a quelle del capitalismo è il senso di impunità che accompagna i principali protagonisti negli USA, in Europa e in Italia. 
4.1.La responsabilità dei cristiani 
Nella liquidità del pensiero esistente, nel dominio ideologico del tecnonichilismo a matrice neoliberista, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la responsabilità dei cristiani, e soprattutto dei cattolici. 
Le opposizioni di sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse parte integrante del pensiero del neoliberismo.
La responsabilità dei cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in particolare, quello cattolico della Dsc (DSC), è l’unico che si pone in conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche di capitalismo finanziario selvaggio. 
Nel capitolo secondo della Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato quattro formidabili NO:
– NO a un’economia dell’esclusione
– NO alla nuova idolatria del denaro
– NO a un denaro che governa invece di servire
– NO all’iniquità che genera violenza “
Dietro a questi NO non chiama in causa solo i cattolici, ma anche tutti coloro che credono al valore della democrazia, ad un’economia civile di mercato, ad un’economia libera e imprenditoriale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costituzione. 
Il pensiero economico-sociale cattolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capital gain” ma la dignità dell’uomo, per difendere la proprietà privata, intesa come strumento di libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente ed efficace competitività solidale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la concentrazione di ogni tipo di potere. 
Per questo dietro quei NO si schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensatori dell’Economia sociale di mercato come Roepke. 
Per esprimere ed assolvere la nostra responsabilità, per rispondere alla nostra “vocazione” siamo chiamati a superare due ostacoli concettuali.
Il primo è di esercitare veramente un servizio alla verità, alla quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco.
Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi e dal laicismo culturale. 
Non dobbiamo aver paura di sentirci dire l’antico adagio, “Silete theologi in munere alieno”, e in tal modo aver paura di essere accusati di volerci occupare di cose, che a loro avviso,   non sono di nostra competenza.
La Chiesa, come ribadisce Papa Francesco, deve avere la forza profetica di prendere posizione su ogni tema. 
Difatti come è possibile impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa relazione che sono temi di vita e di morte per milioni di persone, senza condannare certe cose ed appoggiarne altre? 
Ed in ogni caso, se per la Chiesa in senso stretto, come polis, può essere giustificata una certa cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio, questa timidezza diventa complicità o peccato di omissione. 
Come possiamo stare zitti di fronte ad un pensiero socio-economico che si spinge sempre più verso una società incivile, verso un capitalismo barbaro, violento e fonte di corruzione, che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi pensatori ed operatori cattolici e cristiani, dalla scuola economica francescana alle reducciones dei gesuiti, da Giovanni Bosco a Rosmini, da Luigi Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Padre Bartolomeo Sorge?
Per fortuna anche qui ci vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco:
“L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.
182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne25 . I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”[26].
183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.EG
Dunque, senza timidezze e servilismi, ai quali una certa Chiesa ci ha abituato, diciamo alto e forte, facendo nostro quanto ha affermato Papa Francesco il 7.2.2015 nel videomessaggio ai 500 esperti sul tema Expo 2015: “Nutrire il pianeta, Energia per la Vita”, in cui ha affermato  a non cedere “all'economia dell'esclusione e della iniquità”. Perché questa “uccide”. Parole dirompenti, che si trovano nella Esortazione “Evangelii gaudium” n.53 la sua massima espressione: “Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole”.

Carmine Tabarro



Dai Big Data al Deep Web

Uno sguardo appena fuori dalla finestra. Il sole d’agosto spezza l’acqua di un mare decisamente troppo provocante, l’insenatura che ci abbraccia restituisce all’occhio il riflesso incauto della sabbia. Scintille di luce estiva che penetrano nell’iride e originano in un uditorio serio ma pur sempre giovane, un comprensibilissimo desiderio di spiaggia, ma soprattutto un’intuizione. Antica quanto l’uomo, uno strano accordo tra occhio e mente che è il segreto del pensiero, ed in particolare del pensiero greco, una dinamica elementare e spontanea che è la sua fonte e la sua anima , il bisogno  di scorgere quell’oltre che il mondo, nella sua manifestazione immediata ed eternamente contingente, conserva.


Il fine ultimo

E’ l’incanto del mondo. Cosí lo definisce padre Paolo Benanti, appuntamento fisso ma mai ripetitivo delle Summer School, che apre il suo intervento ripercorrendo a grandi falcate le tappe principiali di quell’avventura sempre in atto che è la storia del pensiero, della relazione dell’uomo di ogni epoca con se stesso ed i suoi simili, con il mondo e le cose, con il tempo e lo spazio. La domanda di senso che origina dall’incanto del mondo si manifesta nel pensiero greco sotto forma di domanda “teleologica”,  ricerca del senso ultimo, della direzione originaria, della “vocazione” autentica di tutti quei singoli  tasselli che compongono finalmente il mosaico ordinato del Kosmos.  

La modernità

L’atteggiamento teleologico, cifra della modalità di pensiero caratteristica dell’occidente greco, cede il passo nella modernitá ad una visione sperimentale e “scientifica” del cosmo e del reale in genere, e fa della relazione con il mondo una ricerca razionale che in modo spregiudicato pretende di carpire la struttura intima della realtá, anche a costo di ridurla al solo visibile, a cio´’ che è essenzialmente “misurabile”. Cosí l’esperienza dello spazio non piú inteso in senso qualitativo ma quantitativo. La musica, con la nascita dello spartito, la matematica, con l’introduzione del sistema decimale arabo strutturato sullo zero.

La pantometria dell’epoca moderna ci offre forse la sua espressione piú compiuta nell’elemento iconico dell’orologio meccanico, del tempo che soggiace alle esigenze geometriche di infaticabili misuratori pre e post-newtoniani, un tempo senza grazia e senza eventi che non racconta piu´lo sfondo spirituale dell’esistenza del singolo e della comunitá, nè restituisce abiti e costumi di una determinata porzione di umanita´ che abita in un contesto definito, ma è ora una struttura compatta e omologante, una casa ordinata dove tutti possono e devono abitare. Conoscere è potere. Chi sa, sa usare e piegare la realtá ai propri scopi, definiti ora con legittimo relativo arbitrio.

Arrivederci Newton

Ma dopo il passaggio dall’incanto teleologico al disincanto geometrico ecco che Benanti ci accompagna con leggerezza a fare un altro scatto in avanti, portandoci nel cuore della rivoluzione post-scientista del novecento. Questa terza fase trova una sintesi paradigmatica in Goedel, la radice inquieta della crisi della scienza cartesiana, ma si palesa in fondo in mille irreversibili crepe che sfondano dall’interno la struttura rigida del sapere scientifico moderno. La crisi della geometria euclidea, con buona pace di Newton, e fino agli sviluppi einsteniani della fisica per cui la scienza e´costretta a ripensare se stessa riconoscendosi infine come nient’altro che (si fa per dire) una struttura matematica che approssima la realtà in un suo contesto.

L’ultimo passaggio di questo breve ma intenso excursus, consiste nell’esigenza di spiegare la realtá “secondo le categorie di complessità ed esigenza”, ovvero, del come si ragiona ai giorni nostri. Dal disincanto geometrico al mondo dei dati o meglio alla “Big Data Society”. A questo punto è opportuno essere sinceri e riconoscere umilmente che nonostante l’ironia di Benanti, il suo linguaggio fluido e scorrevole, che testimonia la sua padronanza assoluta dei temi in questione, l’uditorio, piú o meno in generale ha palesato meraviglia e molto poco dissimulata ammirazione per la lucidita’ delle analisi e l’acrobatismo intellettuale che coniuga un sapere scientifico solido con una sensibilitá filosofica(nel senso greco del termine) che, come il giá citato sguardo fuori dalla finestra, non puó non incantare, perché ci riporta a quell’oltre che permea e e circonda il nostro intorno ma resta comunque (esattamente come funziona in metafisica) sotto la soglia della nostra percezione immediata. La varietà dei dati che forniscono le informazioni sulla realtà  e´ oggi l’elemento che davvero in modo irreversibile trasforma con la realtá la realtá stessa. La datificazione totale del reale è l’approccio peculiare del nostro tempo al reale stesso. 

Tutto conta

Il potere demiurgico della statistica e della raccolta delle informazioni che Benanti descrive muovendosi con agilitá sui livelli  tra loro apparentemente piú slegati del reale, implica delle conseguenze filosofiche che inquietano le coscienze e costringono alla riflessione. Con esempi molto stringenti estrapolati dalla sua esperienza sul campo , Benanti narra i drammi, i dilemmi e le possibilitá inedite che comporta il controllo della realta senza alcun accesso alla causalitá. Questo nell’ambito della medicina e delle neuroscienze ha implicazioni di una portata  evidentemente enorme. Il discorso tocca l’economia principalmente nelle tre dimensioni del: il denaro, della produzione dei beni, la finanza.

Dentro il profondo web

In ultima battuta un’affascinante, inquietante ma anche prudente (caritá del pastore e buon senso del docente) viaggio nel lato oscuro della rete. Il potere dell’informazione che si trasforma in capacitá di manipolazione, perfezionamento dell’architettura sociale e celebra un felice connubio con il superamento tecnologico  delle umane imperfezioni e limitazioni trasporta il presente in un’era nuova che è quella del post-umano.

Ma qui dove tutto è informazione, chiuderebbe il nostro Benanti : “L’informazione che cos’è?”


Simone Tropea

venerdì 26 agosto 2016

La Costituzione Italiana: verso quale riforma - Francesco Occhetta s.j.


La costituzione più bella del mondo, oppure imperfetta?

Con questo quesito si è aperto l’intervento Francesco Occhetta sul tema Riforme Costituzionali. E’ bene chiarire fin da subito la validità e l’importanza dei principi che guidano i primi articoli della nostra costituzione che lo stesso Occhetta definisce “meravigliosi, da difendere e promuovere”. Allora da dove nasce la volontà di riforma che dopo molti tentativi vedrà nei prossimi mesi l’oppurtnità finalmente di vedere approvato (o respinto) il pacchetto di proposte presentate dal governo?

Non sono i principi a dover cambiare ma l’ingegneria costituzionale, che già al tempo della prima stesura pareva debole e macchinosa. Ecco dunque che uno dei punti salienti della riforma è la fine del bicameralismo perfetto con il taglio del numero di senatori che con la nuovariforma sarà composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica.

Sì o No?

Quali sono, a questo punto, le domande da porsi prima di decidere per il sì o per il no? Il primo passo è formulare un giudizio sintetico sulla riforma nel suo complesso in quanto pacchetto di proposte che toccano vari temi e che non ha la presunzione di essere difinitiva nella sua formulazione. Un'impostazione mediatica forse un po’ maldestra ha fatto in modo che il voto sulla riforma potesse passare come un voto sul governo, andando a radunare sotto un unico partito, quello del no, le opposizioni politiche del nostro paese.

Le ragioni del sì e del no, i pro e i contro che devono essere attentamente valutati sono tutti razionalmente condivisibili, ma ciò che ci dobbiamo chiedere è quale sarà lo sviluppo della nostra decisione? Quali saranno le conseguenze della scelta che ci troviamo a breve a dover fare? La necessità di una riforma è forte soprattutto se ne valutiamo gli aspetti più positivi quali la riduzione dei costi e lo snellimento delle procedure amministrative che con la fine del bicameralismo perfetto vedrebbero accelerare la fase di approvazione delle leggi venendo meno la competenza del senato su questo argomento.

La Bussola e le Sacre Scritture

Al di la’ dell’aspetto tecnico e di revisione della riforma dobbiamo anche chiederci se queste siano riforme utili per le generazioni future e quanto dureranno. Il nostro paese sembra infatti restare fermo in un limbo di indecisione mentre la spinta riformista degli ultimi anni fa pressione su di noi che ben sappiamo quanto il lavoro sulle riforme sarà giudicato all’esterno, in un ottica di politica internazionale. 

Chiede allora padre Occhetta: la costituzione è un testo sacro o una bussola con la quale orientarci? La chiave di lettura che ci dà per trovare una risposta a questa domanda sta nel capire che è opportuno entrare in una logica di manutenzione referendaria, che non può prevedere un futuro statico per la nostra costituzione, quasi a volerla tenere chiusa in un cassetto, ma a lasciare libertà per eventuali discussioni future, in un ottica dinamica e aperta ai cambiamenti. 


L’appello che conclude l’intervento è quello alla partecipazione, soprattutto quella giovanile visto il più recente caso brexit e la scarsa percentuale di affluenza della popolazione giovane alle urne, ma soprattutto alla responsabilità della decisione che siamo chiamati a prendere. Secondo il relatore quindi la riforma è l’occasione per creare una leva verso il cambiamento, e attraverso il nostro voto possiamo contribuire a dare inizio a questo processo di trasformazione.

Una Speranza per l'Europa - Solanas 2016, lectio magistralis di monsignor Mario Toso

Giunta alla sua terza edizione, la Summer School Una speranza per l’Europa inizia come d’abitudine con l’invito ai lavori di mons. Toso, Vescovo della diocesi Faenza Modigliana.

Cos'è la decostruzione sociale?

L'esistenza dei rapporti tra le persone si basa sull'uso che ne fa l'uomo della sua possibilità di entrare in relazione con il prossimo. L'esempio più classico è quello della politica: essa si sta disumanizzando, tanto che l’unione politica dell'Europa è quasi totalmente sostituita dall’unione economica. La politica è molto deficitaria. Per questo dichiararsi vittoriosi per un’elezione o un (mancato) referendum, in questo momento storico dove pochi vanno a votare, fa riflettere.
Oltre all'ambito politico quando si parla di "decostruzione sociale" Toso parla di ogni ambito dove troviamo il rapporto tra noi e altri. Ci sono quindi vari tipi di decostruzione come quando ad esempio i partiti divengono solo "comitati di affari" che dopo le elezioni non si interessano del cittadino. Anche i mercati possono essere strumenti di costruzione o decostruzione sociale. Devono essere trasparenti e funzionali all'economia reale cosa che in questo momento non li caratterizza.

Quali sono le cause?

L'individualismo radicale libertario porta a condizionare i comportamenti dei cittadini. Porta alla distruzione dell'anima positiva delle persone. Distrugge anche quei beni relazionali, come la pace, che implicano il rapporto di tutti. L'individualismo libertario rinuncia alla persona come soggetto immaginandolo come un qualcosa senza legami con gli altri. L’astrazione concettuale a scapito della vita reale è un’altra causa di questo tipo di: il mercato ad esempio "ha le sue leggi" e si comporta in modo tale che non si possa modificare. In questa visione delle relazioni il soggetto è estraneo e chi conta è questa società astratta dove il soggetto concreto non ha alcun peso. Le persone sono solo meri oggetti. Immaginando una realtà virtuale si arriva ad una non corrispondenza con le persone storicamente esistenti.

Il caso della libertà

La libertà se usata bene può portare dei frutti. Se è una libertà senza adeguati limiti è una libertà che non può stare alla base della costruzione di una nuova Europa. È una libertà che non si prende cura del prossimo. La libertà non è solo avere la capacità di scelta tra bene e male: la libertà più autentica è quella che tramite la scelta del bene porta all’autonomia. Solo così può fiorire un contesto dove le leggi sono socialmente positive.
In quest’ottica, le istituzioni non devono semplicemente lasciare spazio al libero arbitrio, assecondando la volontà di un gruppo dei cittadini disinteressandosi della bontà delle proposte di legge. Se viviamo in una società dove le leggi sono ingiuste anche noi siamo meno liberi e meno aiutati a fiorire come persone perché alla fine toccherà anche a noi diventare bersaglio di leggi inique.


Noi come popolo, noi come cittadini

Per salvare la politica è necessario che ci ricompattiamo come popolo. Stiamo perdendo proprio la concezione di Europa come popolo. Bisogna recuperare la realtà stessa ed il significato di "popolo". È necessaria la ricomposizione di un popolo. Noi ci sentiamo in questo momento in lotta contro chi la pensa in maniera diversa. Occorre sentirsi e farsi popolo sperimentando la cultura dell'incontro (tra etnie e religioni ad esempio). Ognuno di noi ha una vocazione politica al bene comune. Se noi non possediamo però queste nozioni semplici non riusciremo mai ad interessarci di ciò che costruisce la vera politica. La cittadinanza è una vicinanza a livello morale, spirituale, sociale, organico e cooperativo facendo tesoro delle diversità. L'unione morale non si pone sul livello religioso. Ci si deve incontrare a livello umano. Ognuno di noi deve recuperare sempre di più la propria identità personale come cittadino. Il cittadino esiste dentro un popolo e non da solo. Avere un'idea chiara di cosa voglia dire essere popolo e cittadino partendo dal presupposto che non si può essere l'uno senza l'altro. La libertà fiorisce quando i cittadini ed i politici si impegnano ad osservare principi positivi. Uno dei principi è "l'unità prevale sul conflitto". In questo momento storico abbiamo tante, troppe divisioni per cause religiose, sociali, politiche ed economiche. Ma un popolo esiste se ci sta qualcosa che unisce. È possibile vedere un'unità in caso di conflitti? È possibile ma è più difficile di anni fa. Si può parlare di diversità composta ed armonizzata senza negare le differenze solo se si riconosce che ci sta qualcosa che unisce tutti. È la dignità umana che poi consente di arrivare al bene comune. Investendo su questo si può dire che è meno difficile.


Rigenerazione sociale

Nel mondo finanziario sono sorte le banche etiche. Ciò rappresenta una parte positiva della società. Le onlus, le banche del tempo sono altri strumenti. Ci sono le cosiddette social street che attraverso un social network di persone che abitano nella stessa strada migliorano il mondo acondiviso intorno a loro. Si possono citare altre leggi recenti. Come ad esempio la legge di riforma del bilancio luglio 2016: sarà indicato l'indicatore di condizione equo sostenibile che prevede la qualità di vita dei cittadini.

Diventiamo più capaci di generare beni sociali quando siamo più umani quanto più partecipiamo alla vita trinitaria. Noi che abbiamo fede e che crediamo di avere più chance perché non dovremmo essere i primi promotori di questa nuova costruzione europea e sociale?

giovedì 23 luglio 2015

Economia globale e bene comune

  Relazione del Prof. LeonardoBecchetti (docente di economia presso la facoltà di economia dell’università di Roma Tor Vergata): “Gli equilibri tra imprese, cittadini e istituzioni nell’economia globale. Le soluzioni per il bene comune”

  Becchetti apre con una premessa di metodo, affermando come la via da seguire sia quella di partire dai principi per poi applicarli al contesto, contesto che oggi particolarmente si rivela sempre mutevole. È relativamente facile enunciare i principi, sono sempre quelli: il primato della persona, la sussidiarietà, l'opzione preferenziale per gli ultimi ... La vera cosa interessante è capire come questi principi si applichino poi al contesto: possiamo finire col far dei danni se le ricette cui perveniamo si rivelano sbagliate. Una volta trovate le soluzioni non abbiamo ancora finito: resta da capire perché quest soluzioni non trovino applicazione, che cosa ci possa aiutare ad andare verso la soluzione.


  Qual è il contesto in cui ci muoviamo, quando parliamo di economia globale e bene comune? Il mondo odierno è molto bravo a "far cose"; ringraziando il progresso tecnologico abbiamo infatti una crescita spaventosa del 4-5% annuo per l'aggregato mondiale. Tuttavia la crescita è mal distribuita. Un bene nel quale non riusciamo a investire e progredire è la relazionalità. Per esempio la fiducia, che è tra le cose più difficili da costruire, è importantissima per l'economia (si veda l'esempio della recente trattativa per la Grecia), in quanto può ridurre i costi transitivi.

  Il tema del progresso umano è dunque per noi molto più affascinante del tema del progresso tecnologico: si può dire che quest'ultimo ormai cammini da sé. Il grosso problema non è riuscire a creare ricchezza, ma la capacità di distribuirla.

  Nel mondo è in atto una rivoluzione, due diversi tipi di conoscenza si distinguono: la conoscenza codificata e la conoscenza generativa.
La conoscenza codificata consiste nella ripetizione della stessa operazione nello stesso identico modo più e più volte, compito oggi demandato alle macchine o a manovalanza a bassissimo costo. Su questo terreno l'Italia è chiaramente sconfitta, e nelle condizioni presenti non possiamo infatti pagare i lavoratori un dollaro al giorno come i Paesi emergenti o del terzo mondo (come la Cina o altri paesi con salari ancora più bassi). La Sardegna e il tarantino negli anni '50 e '60 puntarono molto su questo tipo di conoscenza (grandi complessi industriali siderurgici), per poi finire schiacciati nei decenni successivi da Paesi più poveri con salari decisamente più bassi nello stesso settore. Il lascito sono state grandi cattedrali nel deserto nel nostro territorio.

  Oggi bisogna dunque ricollocarsi nel settore della conoscenza generativa: quella conoscenza che richiede uno sforzo dell'intelligenza sempre diverso per ogni nuovo pezzo che si produca (si pensi a servizi quali quello fornito dal medico, dall'avvocato, dall'innovatore). Nell'azienda italiana Loccioni (collaudi su pezzi di ricambio) abbiamo ad es. cosiddetti operai che in realtà sono dei softwaristi, dei piccoli ingegneri, persone che devono adattare e applicare dei programmi informatici a situazioni diverse.

  È qui che poi entra in gioco il problema della distribuzione: siccome una comunità sociale non può andare a comporsi all'istante, per il 100%, di professionisti della conoscenza generativa, purtroppo si avrà nella transizione molta gente che uscirà da quei settori, nei quali si produceva in maniera standardizzata e che ormai saranno fuori mercato, e ci si dovrà occupare dunque di come ricollocare queste persone: ecco il tema fondamentale della copertura universale della disoccupazione (reddito minimo, sussidio di disoccupazione, reddito di cittadinanza, ecc.), presente in moltissimi Paesi, Italia esclusa. Parallelamente a questo sussidio dovremmo ovviamente stimolare i beneficiati a formarsi a questa nuova professionalità generativa, al learning-by-doing, al problem-solving; ciò implica anche un cambiamenti nel mondo della scuola, affinché insegni a risolvere i problemi anziché solo a imparare un insieme di nozioni a memoria da ripetere a memoria.

Marcello Iovane
@Marcello_Iovane







lunedì 20 luglio 2015

La riconciliazione tra Cittadini e Politica

  Il secondo intervento della prima giornata ha come tema “Una strada per la riconciliazione tra Cittadini e Politica” e ci è offerto dall’on. Savino Pezzotta, già segretario nazionale Cisl e parlamentare durante la XVII leg.
           
  Il punto su cui l’onorevole si sofferma è caratterizzato dalla sua testimonianza di vita, alimentata dal desiderio di vedere operare nella politica cristiani che non si accontentino di scendere a compromessi, o di subire passivamente le scelte politiche attuali, ma che invece siano promotori di una nuova concezione di impegno sociale e politico.

  Per questo è necessario non essere ignavi rispetto alla radicalità dei cambiamenti, che porta ad un costante appiattimento delle idee su posizioni moderate, ma riscoprire, al contrario, la bellezza e l’efficacia di assumere e di promuovere modi di fare politica alternativi. Se la radicalità si dimostrasse un cammino troppo scosceso, Pezzotta sottolinea la necessità di esercitare la temperanza, piuttosto che la moderazione. Se i credenti non possono essere sempre radicali, essi possono e devono, tuttavia, essere audaci.

  A questo proposito, l’onorevole Pezzotta suggerisce che “andare nelle periferie” non implica solo limitarsi ad un aiuto superficiale offerto al tessuto sociale più svantaggiato, quale può essere un sussidio o la condivisione di beni di prima necessità, ma dovrebbe prevedere un’opera di emancipazione e di rivalutazione della stessa dignità umana. In questo modo, nella misura in cui sono responsabile verso l’altro, sono responsabile anche verso di me, nell’ottemperamento di quel “debito di cura” che ognuno di noi ha, per il solo fatto di essere nel creato. 

Tutto ciò può tradursi all’interno di una dimensione affettiva e di responsabilità che prende il nome di “amore politico”. Ed è proprio questo il punto di partenza per dare vita ad una nuova riconciliazione tra cittadini e politica, che si basi su un rinnovato senso di appartenenza del singolo nei confronti della propria comunità, che spazi da quella municipale a quella nazionale.

  Il mezzo attraverso il quale condurre questa riconciliazione è la riscoperta di un nuovo linguaggio politico, che sia rivolto non più ad un’indistinta massa di persone, alla “gente”, ma che abbia come obiettivo il raggiungimento del popolo, inteso come comunità che condivide un profondo senso di appartenenza alla nazione.

  Conseguenzialmente, il nuovo linguaggio politico deve adeguarsi alle esigenze della società con cui deve dialogare, formulando una nuova proposta politica da attuarsi attraverso una più innovativa forma di comunicazione. Per questo motivo, è importante lasciare spazio alle nuove generazioni che ricostituiscano il patto intergenerazionale, diventando esse stesse protagoniste.
  
Pezzotta, infatti, più volte ribadisce l’importanza e la necessità di avere coraggio, e di imparare a sognare “ad occhi aperti”, consapevoli che ciò che si desidera non è condannato a rimanere utopia, ma che ha basi profondamente radicate nella realtà.
   
In conclusione, l’onorevole sottolinea che essere cristiani politicamente impegnati significa proporre nuove idee e progetti, aprirsi al confronto su tematiche attuali e globali, vivere concretamente i principi della dottrina sociale in un’ottica di rinnovata umanizzazione.
           

                                                                                         Annamaria Burzynska e Francesca Cocomero

Discernimento spirituale: il segreto per formare Donne e Uomini in politica

  L’intervento di Francesco Occhetta (giornalista politologo di Civiltà Cattolica), ha riguardato aspetti che a prima impatto potrebbero sembrare estranei alla vita politica ma che in realtà ne costituiscono il cuore: i desideri come motori delle azioni degli uomini e il loro discernimento.

  Il desiderio occupa nella vita dell’uomo un posto fondamentale, servono a far capire verso quale meta orientare le vele e navigare. “Siamo fatti di desideri. L’uomo è capace di gustare la vita se nell’ascoltarli prova una pace profonda che gli dice: io posso viverli”. Distinguere e dare nome ai desideri è colmare un vuoto nel realizzarli. La malattia del nostro tempo sembra essere proprio l’assenza di desiderio, specialmente nei più giovani.

  Cos’è il desiderio? E’ qualcosa che tocca profondamente i nostri affetti, ma non è emotività, non è pura passione, né un bisogno; il vero desiderio si riconosce perché non si spegne, arde senza consumarsi, dà la forza di superare grandi difficoltà,chiede grandi rinunce che non sono mai impossibili.

  Come coltivarlo? Ripercorrendo la propria vita, condividendo con un amico, una guida, la propria storia, lasciandosi ascoltare e facendosi accompagnare.

  Il discernimento, quel setacciare, distinguere, capire le voci della nostra coscienza diventa dunque uno strumento essenziale. Occhetta ha a questo punto citato alcuni passi degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola: “Quando vai di male in peggio, il messaggero cattivo di solito ti propone piaceri apparenti facendoti immaginare piaceri e godimenti, perché tu persista e cresca nella tua schiavitù. Invece il messaggero buono adotta il metodo opposto: ti punge e rimorde la coscienza, per farti comprendere il tuo errore” (n. 314). Il male cerca di corromperti offrendoti la strada più facile e veloce che ti dà piaceri di breve durata, che ti rendono schiavo, senza mai appagarti ma anzi usandoti.

  “Quando sei desolato, non fare mai mutamenti. Resta saldo nei propositi che avevi il giorno precedente a tale desolazione, o nella decisione in cui eri nella precedente consolazione. Infatti, mentre in questa ti guida di più lo spirito buono, nella desolazione ti guida quello cattivo, con i consigli del quale non puoi imbroccare nessuna strada giusta” (n. 318). Proprio perché il desiderio non è solo emozione, le scelte importanti non devono mai essere prese durante momenti di tristezza e desolazione; in queste situazioni di dubbio, occorre attendere che torni il sereno, condizione in cui riusciamo a vedere meglio l’orizzonte e la direzione che dobbiamo intraprendere.

  Il politologo gesuita ha proseguito il suo intervento offrendo la sua visione sui temi prioritari che la società dovrà affrontare nel prossimo futuro. Per primo il rapporto tra fede e laicità, specialmente dopo i tragici eventi di Parigi; occorre capire qual è l’incontro possibile tra le religioni e la società laica, partendo dalle grandi domande che ci accomunano: quale dialogo? Quale diritto? Cosa condividiamo?

  In secondo luogo è necessario che sia rimesso al centro delle scelte politiche l’uomo, nella sua identità più profonda; è molto diffusa nella classe politica l’assenza di una visione antropologica specifica: che uomo vogliamo costruire? In questa epoca storica è infatti necessario colmare il gap culturale rispetto alle nuove categorie del post-umanesimo.

  In conclusione, padre Occhetta ci lascia un metodo articolato in più tappe per vivere l’impegno politico:
1.     Lettura del contesto in cui viviamo
2.     Lettura critica della propria esperienza, inquadrandola in un’ottica di impegno politico
3.     Agire insieme dandosi forza a vicenda
4.     Essere capaci di valutare quanto fatto e farsi valutare dagli altri
5.     Interiorizzare i contenuti e condividerli, tematizzando la propria esperienza
6.     Curare la vita spirituale, attraverso la preghiera

  Occhetta ci saluta con Bertold Brecht: Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali”.


Rosalba Famà, Benedetta Michelazzo